lunedì 11 ottobre 2010

IL RUMORE DEL SILENZIO

Marco Ansaldo - La Stampa

Non abbiamo mai capito il motivo per cui da una quindicina d’anni negli stadi e davanti alle chiese gli italiani applaudano i morti, quasi li si considerassero i protagonisti riusciti della «fiction» che si chiama vita e non le vittime di un fatto tragicamente reale che avrebbero evitato volentieri. Ancor meno capiamo la cinquantina di balordi incappucciati che ieri sera allo stadio di Bergamo hanno approfittato del minuto di silenzio per gli alpini uccisi in Afghanistan e hanno intonato insulti contro la squadra avversaria, l’Atalanta. Oppure la sceneggiata di Livorno dove una parte del pubblico (i «buoni») ha iniziato ad applaudire prima che cominciasse il silenzio così da coprire preventivamente i fischi della curva dei «cattivi», che da Nassiriya in poi contestano l’omaggio ai soldati italiani morti nelle varie missioni.

Si dirà che sono soltanto due episodi in un mare di centinaia, migliaia, di avvenimenti sportivi che si sono svolti nel fine settimana con il doveroso rispetto del lutto. Sabato sera, al Palazzo dello sport di Roma, c’erano dodicimila persone per Italia-Brasile di volley. Quando lo speaker ha chiesto il minuto di raccoglimento il silenzio è calato senza che quasi si sentisse un respiro: è stata una scena di una tale dignità che è passata attraverso il televisore imponendo pure a noi, sul sofà del salotto, di stare zitti a riflettere o a pregare. Raccontano che lo stesso atteggiamento si sia registrato in molti stadi e palestre dello sport definito «minore»: il problema è che non ci rassegniamo all’imbarbarimento del Paese di cui il calcio è una vetrina, la sacca che ne raccoglie gli umori popolari. Temiamo insomma che l’Italia vera sia quella che non ha più rispetto per nulla o lo esibisce con un applauso da «claque» teatrale.

Si discute molto di riportare il calcio ad una dimensione educativa. I protagonisti ne sentono il bisogno, forse hanno capito che ci si è spinti troppo oltre la soglia della decenza. Prandelli ne parla quasi ogni giorno, insistendo sull’idea che bisogna aprirsi ai bambini e ai buoni sentimenti. Ovunque si auspicano stadi per le famiglie, anche se poi non si fa troppo per invogliarle, visti i prezzi dei biglietti e i disagi cui si sottopone il cittadino perbene che li ha potuti acquistare. Tra tessere e tornelli è un percorso a ostacoli poco dignitoso per chi non ha niente da rimproverarsi.

Anche perché, entrato nello stadio, il cittadino perbene scoprirà che in qualche modo resistono gli striscioni incivili, i petardi e la mala gente e si chiederà come sia possibile. Ma forse la chiave di lettura degli episodi di Bergamo e Livorno e di quello, opposto, del Palasport romano è semplice e antica: dove c’è un pubblico di praticanti e di appassionati è più facile trovare un’educazione alla civiltà che non dove c’è un pubblico di tifosi. Lo sport educa chi lo fa. Non chi lo strilla.

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